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fare un esempio, in circa il 40% dei concordati ammessi nel 2008 a
cinque anni di distanza i creditori chirografari (ossia la stragrande
maggioranza) non hanno ricevuto un euro, un 20% ha ricevuto tra
l’1% e il 10% e un 12% tra il 10% e il 20%. Quindi nel Tribunale
più importante d’Italia, almeno per quanto riguarda l’economia,
i concordati preventivi a cinque anni dall’omologa non hanno
assicurato al 60% dei normali creditori alcun pagamento o hanno
portato pagamenti in misura inferiore al 10%. Questa situazione ha
messo in crisi molte imprese creditrici con effetti a catena.
Per quale ragione i risultati sono stati così negativi?
E quali possono essere i rimedi?
Il Dipartimento di Economia Aziendale dell’Università di Bologna
ha compiuto alcuni mesi fa una ricerca su un campione di 830
procedure di concordato selezionate in tutta Italia. Sulla base
dell’analisi dei bilanci del quinquennio precedente, applicando la
formula dell’economista americano Altman, è emerso che l’87% già
tre anni prima di chiedere l’ammissione alla procedura si trovava
in situazione di alta probabilità di fallimento ossia, sostanzialmente,
in situazione d’insolvenza. La ragione quindi è che alla procedura
di concordato si arriva troppo tardi dopo che si è mascherato per
molto tempo la situazione d’insolvenza, per cui quando si presenta il
ricorso il disavanzo è enorme. D’altro canto questa è anche la ragione
per cui nel 90% dei fallimenti i creditori chirografari non ricevono
alcun pagamento. Tra queste imprese che arrivano al concordato o
al fallimento in queste condizioni alcune fanno capo ad imprenditori
che, investiti dalla crisi del settore d’appartenenza, fino all’ultimo
si sono illusi di riuscire a uscirne senza ricorrere a strumenti come
gli accordi di ristrutturazione o il concordato preventivo per cui,
cercando di mascherare la loro condizione finanziaria, per anni si
sono trascinati tamponando la situazione con i creditori più forti o
più aggressivi, con il risultato finale di proporre concordati prevedenti
percentuali di pagamento minime e spesso ridicole che i creditori poi
accettano solo per mancanza di alternative più vantaggiose. Ma una
parte rilevante di questi concordati riguarda imprese gestite ab origine
in modo spregiudicato, mettendo in conto fin dall’inizio il dissesto
con l’intenzione di ripartire successivamente con una nuova società e
di utilizzare lo strumento del concordato preventivo per liberarsi dei
debiti, pagando percentuali molto spesso irrisorie, per eliminare il
rischio dell’azione di responsabilità e nei fatti anche il rischio penale
per bancarotta, connessi alla dichiarazione di fallimento, e spesso
anche per trasferire l’azienda senza debiti in capo alla nuova società.
Questo fenomeno determina un danno all’imprenditoria seria non
solo per lo svuotamento dei crediti ma anche per l’alterazione delle
regole della concorrenza. Un’impresa che per anni opera senza pagare
l’IVA e i contributi previdenziali e nell’ultimo anno di attività neppure
i fornitori, con l’obbiettivo di assicurare la continuità dell’attività
nel tempo della stessa trasferendo poi, in vario modo, l’avviamento,
e spesso anche le merci e le attrezzature, in capo ad un soggetto
formalmente diverso, può buttare fuori dal mercato o comunque
mettere in gravi difficoltà le imprese concorrenti.
Quanto ai rimedi una prima correzione proposta è quella di
reintrodurre per legge una percentuale minima di soddisfacimento
dei crediti. Confindustria ha proposto il 25-30%. Questa soluzione
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